AI: ANCORA INTELLIGENTI?

Di Antonino Prizzi Lascia un commento / 18 Gennaio 2024

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  • Tempo di lettura:7minuti
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Abbiamo diversi buoni motivi per intuire che la cosiddetta Intelligenza Artificiale (IA) sia un fattore umanamente e culturalmente regressivo, e non un ‘semplice’ nuovo gingillo tecnico volto al progresso sia di quella gran parte di umanità stordita e confusa (dai troppi problemi) che di quella molto più piccola sazia e annoiata, che la vorranno e la subiranno.

L’AI è infatti l’ultimo stadio di una profonda e conclamata crisi del sistema cognitivo/progettuale antropico, dal momento in cui tale sistema è stato gradualmente ma stabilmente conferito alla sua efficace e scintillante parodia virtuale, alimentata dai nostri terminali personali (PC, smartphone, eccetera) e gestita presso i server mondiali – a maggioranza privati o a controllo privato – della Rete. Ormai il sistema di cui sopra è in sostanza quasi del tutto sottratto all’arricchimento sociale ‘naturale’, normalmente non automatico e poco controllabile/gestibile proprio perché tende ad utilizzare in modo integrato e creativo vecchi e nuovi metodi di comunicazione fra le persone, senza privilegiarne alcuno.

Alla suddetta deleteria standardizzazione degli ambienti comunicativi e creativi si aggiunge il gusto incosciente di desiderare quelle che chiameremmo ‘strategie senza strateghi’, attraverso il chiaro tentativo di delega alle macchine virtuali robotizzate delle scelte piccole e grandi, seriali o puntuali. Scelte evidentemente da sottrarre al consesso umano, cooperante e dialogante con ‘troppa fatica politica’ e ‘troppo spreco di tempo’.

Ovviamente un tale scenario ha il suo perverso senso solo perdurando la spinta all’individualismo, confermata dalla diffusione dei devices personali che, dietro una smagliante promessa di autonomia operativa e culturale della persona, servono a discretizzare ed affinare il controllo comportamentale e la correlata produzione di “dati sensibili”. Ma a sua volta tale spinta risale alla perdurante divisione tayloristica del lavoro – e allo scientismo connesso – attraverso cui si tentano sempre nuove vie tecnologiche e politiche per ridurre l’incidenza del fattore umano (e del controllo sociale di base) sulla produzione di beni, di servizi e di ‘scienza libera’; riportando tutto ciò sotto lo stretto controllo di limitate élites affaristiche mondiali.

Non possiamo trascurare il fatto che tutto ciò risente del lentissimo affermarsi di una vera e diffusa visione olistica e sistemica dell’esistenza dell’essere umano sulla Terra, o più semplicemente della sua co-esistenza rispettosa con il ‘non umano’ del Pianeta. Ciò anche per colpa della rocciosa fede ingegneristica di certo ambientalismo, che più si è visto marginalizzato e inefficace a causa del suo scarso impatto socio-politico (anche per vecchie scelte autolesioniste, come l’avvilente diatriba fra ‘verdi-verdi’ e ‘verdi-rossi’) più ha immaginato la soluzione dei problemi del Pianeta affidata quasi del tutto a improbabili sinergie tecno-imprenditoriali ed istituzionali ad ogni livello. Non considerando che queste avrebbero trovato le opportune basi solo nell’uso massivo delle tecnologie informatiche, richiedendo perciò apporti interessati delle major di settore, e nel supporto da grossi flussi finanziari spesso del tutto opachi.

E’ l’inganno tecnologico in cui sono caduti in molti: la voglia di cavalcare la complessità con ‘le cose’ e non con le persone che la creano e la subiscono, che ha scalzato il ‘saggiamente politico’ denso di umori e rumori umani, dal suo ruolo importante.

Ma anche volendosi confrontare con i soli strumenti informatici e telematici e la loro storia italiana recente, troviamo gravi carenze – o assenze – di un pensare ‘diverso’. Troviamo per esempio la sostanziale difficoltà o vera incapacità di ‘immaginare senso sociale’ per l’enorme massa di dati prodotti dalle persone connesse in Rete. Ricordiamo come ancora nel 2013 il dibattito italiano sull’utilizzo dei ‘big data’ balbettava e le relative professionalità stentavano ad attivarsi. Ciò sia nel campo alternativo no-profit, dove ciò sarebbe stato utile per non lasciare sguarnito un territorio di lotta culturale che si preannunciava dura, sia nello stesso campo profit. Ma quest’ultimo si è rapidamente attivato, così che la gestione efficiente dei big data, affidata ai privati che gestiscono in gran parte linee di comunicazione, data center e ricerca applicata, ha creato il presupposto indispensabile per la modellizzazione e discretizzazione dei linguaggi espressivi della collettività umana.

Quindi, ad oggi, le reti neurali e dispositivi simili risultano da tempo addestrati a risolvere problemi – ben altrimenti affrontabili o prima inesistenti – in ossequio al risparmio di tempo, lavoro e denaro; ma in realtà vanno a creare nuovi ‘mercati delle soluzioni’, nuove artificiose dipendenze, e a comprimere l’apporto umano responsabile, competente e giustamente retribuito. E la cosiddetta Intelligenza Artificiale nelle sue varie espressioni, legittima innanzitutto se stessa e gli enormi investimenti che la permettono, oltre che l’estrazione dei dati che va a gestire/interpretare secondo i vizi formali e politico-sociali che incorpora. Vizi che difficilmente possono essere corretti da iniziative terze e no-profit, dati gli enormi investimenti che tali revisioni comporterebbero (si pensi che l’addestramento di CHATGPT 4 è costato 100 milioni di dollari e l’affitto del server relativo da parte di una piattaforma che ne offra i servizi costa circa 700 euro al giorno).

A corollario di tutto ciò due ‘piccole’ notazioni forse utili:

  1. Si considera risibile che l’AI nelle sue varie declinazioni, diventi oggetto o strumento di un operare artistico che, date almeno le premesse anzidette, non potrebbe che essere figlio di un feroce cinismo o di una spensierata ‘voglia di nuovo’ a tutti i costi. Consigliamo sommessamente a certi nerd-artisti già visti all’opera e a quelli che ci si stanno mettendo, di deporre per un attimo i loro nuovi giocattoli e di stare alla finestra, a vederne gli sviluppi. Ciò convinti come siamo che il creare artistico non è avulso dalla considerazione complessa del reale, e del reale non è risposta irriflessa. Il grande scrittore Amitav Gosh da tempo sostiene che c’è troppa letteratura priva degli echi di ciò che accade nel mondo intorno a noi, nell’ambiente naturale. Non essendo certo un epigono del “realismo socialista” e dell’oleografia da “sol dell’avvenire” (che anzi immolavano l’ambiente in favore del produttivismo) Gosh spinge i suoi colleghi a trovare posto per l’eco-sensibilità accanto alle faccende squisitamente umane che propongono e accanto all’inevitabile ego-centrismo del letterato. Da un osservatorio infinitamente meno autorevole, vorremmo pure proporre agli artisti di ogni genere di aggiungere sensibilità sociale e genuinamente politica al loro operare, ma attuando una pensosa moratoria all’uso esplicito dell’AI in tutte le sue espressioni. Anche considerando che i processi volti alla mimesi dell’espressività umana stanno già operando per minimizzare gli input diretti e quindi l’interazione con la nostra specie, e che la tendenza quindi va ben oltre “la riproducibilità dell’opera d’arte”, cioè verso quella che diremmo la parodia del fare artistico umano operata da ambienti di elaborazione dati. (Detto di passata, per fortuna c’è qualcuno che già opera contro tutto ciò attuando addirittura il cosiddetto “data poisoning”, versione informatica della ‘sabbia negli ingranaggi’ del sistema. Ma in prassi simili intravediamo il rischio di essere invischiati in una lotta feroce con forze inadeguate).
  2. In paesi che hanno costruito la propria recente realtà moderna (almeno da tutto il ‘900) grazie alle manovre geo-politiche delle maggiori potenze europee e in specie di quelle della cosiddetta “anglosfera”, è difficile mettere in atto politiche culturali di effettivo affrancamento dalle forti influenze esogene risultanti. Ma si deve lo stesso lottare a favore di questo affrancamento, sempre e comunque. Almeno in onore di quel barlume di senso civico e politico che ci spinge, per esempio, a vedere nell’assoluta devozione dell’Università italiana a tutte le mode hi-tech eterodirette – pur di realizzare l’eterna promessa della competitività in sede internazionale – un enorme e immanente pericolo anziché un’opportunità. I nostri atenei non hanno mai brillato per indipendenza ed autorevolezza della ricerca tranne che per gloriose eccezioni territoriali e tematiche. La corsa a padroneggiare l’AI in ambito italiano si avvia quindi verso una ulteriore tappa della dipendenza finanziaria, prima che culturale, del contesto universitario da fonti (nonché motivazioni e progettualità) esterne allo stesso. Fonti spesso organiche al sistema industrial-militare internazionale, che almeno dagli anni 2000 ha scelto il ritorno esplicito alla risoluzione bellica delle crisi socio-politiche ed economiche internazionali. In questa permanente postura universitaria italiana si deve vedere una ulteriore conseguenza della ‘distrazione politica’ ricordata prima, che da tempo ha ridato forza ad un concetto monolitico e progressivo di ‘Scienza’. Concetto che invece, a partire dalle antiche letture marxiste della realtà, è già stato del tutto demolito, riducendolo ad un più realistico coacervo di ‘scienze’ per giunta non tutte progressive, ma sicuramente tutte asservite e funzionali ai rapporti di forza socio-politico-economici di ogni contesto nazionale ed internazionale.

Immagini generate da Midjourney su input testuale di Gilberto Pierazzuoli

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ANTONINO PRIZZI

Antonio Prizzi, architetto, fa parte di G.E.I.E. PECOE, Comunità degli Innovatori/ToscanaEconomia, Rete Toscana. APSEA. NETSUS Network for Sustainability - www.netsus.it

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